Il Reclamo: strumento di mediazione con il Fisco

Che cos’è il reclamo?

Il reclamo è uno strumento introdotto dal legislatore nel 2012. Attraverso il reclamo, un contribuente può risolvere le proprie controversie con il fisco senza chiamare in causa il giudice tributario. il contribuente, dopo la notifica dell’avviso di accertamento, può instaurare una trattativa con il Fisco per cercare di risolvere la problematica. Non si tratta di una mediazione, in quanto non viene coinvolto un terzo soggetto.  La trattativa avviene solo tra il contribuente e l’Amministrazione Finanziaria.

Il contribuente è obbligato a trattare con il Fisco?

Dipende dalle situazioni.  È obbligatorio, per le controversie inferiori a 50.000 euro (la somma fa riferimento alla sola quota capitale). Invece, per quanto riguarda le controversie pari o superiori a tale somma, il reclamo diventa facoltativo. Questo strumento è stato introdotto per alleggerire il carico di lavoro delle Commissioni Tributarie.

Come funziona il reclamo?

Una volta ricevuto l’atto pretensioso, il contribuente ha 60 giorni di tempo per presentare reclamo. Nello specifico, con l’aiuto del professionista di fiducia, il contribuente dovrà scrivere un ricorso e notificarlo alla controparte ed allegare un’istanza di reclamo. I documenti da spedire, quindi, sono 2.  È possibile allegare ulteriori prove a supporto del reclamo. L’Istanza di reclamo conterrà una proposta formulata dal contribuente o un invito, dello stesso, all’Amministrazione Finanziaria a presentare una proposta. L’amministrazione finanziaria ha 90 giorni di tempo per leggere la richiesta del contribuente e decidere se accoglierla o meno, o ancora, se formulare una proposta.

Decorso il termine dei 90 giorni, qualora la trattativa non abbia avuto esito positivo, il contribuente potrà presentare ricorso alla Commissione Tributaria competente entro 30 giorni. Al ricorso potrà allegare le stesse prove fornite con Istanza di reclamo all’Amministrazione Finanziaria.

Conclusioni

Il vantaggio del reclamo risiede nel fatto che si tratta di un procedimento amministrativo, che non coinvolge il giudice tributario.  Ciò permette di risolvere la controversia in maniera molto più immediata e molto meno onerosa. Inoltre, non è obbligatorio giungere ad un accordo con il Fisco. Il contribuente, infatti, conserva comunque la facoltà di presentare ricorso contro l’avviso di accertamento.

 

Trasferirsi all’estero: quali sono le conseguenze fiscali?

Il concetto di residenza

Nel nostro ordinamento giuridico esistono varie definizioni di residenza. Sicuramente quella più importante è quello fornita dal Codice Civile: “la residenza è il luogo dove una persona dimora abitualmente”. Altro concetto, spesso associato alla residenza, è quello di domicilio. Secondo il Codice Civile, il domicilio è “il luogo dove una persona ha la sede principale dei propri affari ed interessi”. Il domicilio è, quindi, il luogo in cui una persona svolge principalmente la propria attività lavorativa. Ovviamente può capitare che la residenza e il domicilio coincidano.

La residenza fiscale 

Un’altra definizione importante è quella di residenza fiscale.  Secondo il TUIR, un soggetto è residente fiscalmente in Italia quando “è iscritto presso un’anagrafe del territorio nazionale o hanno nel territorio dello stato il domicilio o la residenza sancita ai sensi del codice civile”.

I soggetti residenti fiscalmente in Italia, sono quelli obbligati a pagare le imposte in Italia.

Chi è tenuto a  pagare le tasse in Italia?

Secondo la definizione di residenza fiscale che abbiamo citato precedentemente ci sono 2 criteri per capire quando una persona deve pagare le tasse in Italia:

  • criterio formale = se un soggetto è iscritto all’anagrafe di uno dei comuni italiani, anche se  ha la residenza e/o il domicilio all’estero.
  • criterio sostanziale = se un soggetto non è iscritto all’anagrafe di uno dei comuni italiani, ma ha residenza e/o domicilio in Italia. In tal caso, è onere dell’amministrazione finanziaria verificare se un soggetto ha residenza o domicilio nel territorio italiano.

Che cosa succede quando una persona trasferisce la propria residenza all’estero?

Il primo step è rappresentato dalla cancellazione dall’anagrafe nazionale ed iscriversi all’AIRE (Anagrafe Italiani residenti all’estero), facendo richiesta all’ex comune di residenza in Italia. Questo passo è necessario per evitare di subire la tassazione italiana anche dopo il trasferimento all’estero. Inoltre l’ex comune di residenza, deve, entro 6 mesi da tale data, comunicare all’Agenzia delle Entrate l’effettiva cessazione della residenza del richiedente nel territorio nazionale. Chi ha richiesto l’iscrizione all’AIRE, sarà poi sottoposto a vigilanza da parte dei comuni e dell’Agenzia delle entrate, al fine di verificare la sua effettiva cessazione della residenza nel territorio nazionale.

Sempre riguardo al trasferimento all’estero, esiste una norma antielusiva secondo la quale “sono considerati residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi nazionali ed emigrati in stati aventi un regime fiscale agevolato, individuati con decreto del ministro delle finanze da pubblicare nella Gazzetta ufficiale” – ovviamente sarà onere del contribuente dimostrare che in Italia non si ha né una residenza né un domicilio fiscale.

La regola dei 183 giorni

Il vero problema del trasferimento all’estero si potrebbe avere nell’anno in cui un soggetto si trasferisce all’estero e questo perché il soggetto in questione potrebbe aver prodotto dei redditi in Italia nel corso di quell’anno solare.

In questi casi si applica la regola dei 183 giorni. Tale regola stabilisce che:  se una persona è residente in Italia (o comunque è iscritta nell’anagrafe italiana) per la maggior parte del periodo imposta, che corrisponde ad un periodo superiore a 183 giorni (o a 184 per gli anni bisestili), è obbligata a pagare le imposte in Italia, sempre se in quell’anno vengono prodotto redditi in Italia.

Credito IVA: come e quando avviene il rimborso?

Quando si può incassare il credito IVA?

Come detto in un precedente articolo, il credito iva può emergere sia da una dichiarazione annuale che da una delle comunicazioni IVA effettuate trimestralmente. Che differenza c’è?

1) se il credito emerge direttamente nella dichiarazione annuale, sarà possibile chiederne il rimborso proprio in sede di dichiarazione;

2) se il credito emerge da una comunicazione IVA trimestrale, allora il contribuente deve presentare un’istanza all’Agenzia delle Entrate.

Come si incassa il credito IVA?

Ai sensi dell’articolo 38bis comma 1 del dpr n.633 del 1972, il credito viene rimborsato entro 3 mesi dalla presentazione della dichiarazione o dell’istanza di rimborso. Qualora il rimborso venga effettuato oltre tale termine, il contribuente avrà diritto a ricevere un interesse annuo del 2% sulle somme richieste a partire dal 90° giorno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione o l’istanza.

Quando l’Agenzia delle Entrate chiede una garanzia?

Non sempre è possibile ottenere il rimborso automaticamente.  In alcuni casi, il contribuente è obbligato a fornire una garanzia al Fisco. Questa situazione si ha quando l’ammontare chiesto a rimborso supera i 30.000 euro e quando il soggetto richiedente è:

1) un soggetto passivo, il cui rimborso risulta dall’atto di cessazione dell’attività.

2) un soggetto passivo che esercita un’attività d’impresa da meno di due anni, salvo che non si tratti di una Startup innovativa;

3) un soggetto passivo che nei due anni antecedenti la richiesta di rimborso, sono stati notificati avvisi di accertamento, per ciascun anno, la cui somma accertata sia superiore:

a) al 10 % degli importi dichiarati se questi non superano 150.000 euro;

b) al 5 % degli importi dichiarati se questi superano 150.000 euro ma non superano 1.500.000 euro;

c) all’1 % degli importi dichiarati, o comunque a 150.000 euro, se gli importi dichiarati superano 1.500.000 euro.

Che tipo di garanzia è richiesta?

La garanzia prestata deve avere una durata di 3 anni dall’esecuzione del rimborso. Oppure, può essere di durata inferiore:

  • Se prestata sotto forma di cauzione in titoli di Stato o garantiti dallo Stato, al valore di Borsa;
  • Deve avere durata pari al periodo mancante al termine di decadenza dell’accertamento.

In alternativa, il contribuente può fornire una garanzia, senza limiti di tempo, ma sotto forma di fideiussione. Tale fideiussione può essere rilasciata da:

  • una Banca;
  • una impresa commerciale che a giudizio dell’Amministrazione finanziaria offra adeguate garanzie di solvibilità;
  • un’impresa di assicurazione, nel caso di polizza fideiussoria.

Forme alternative alla garanzia

L’Agenzia delle Entrate non può chiedere una garanzia, nei casi sopracitati, se il contribuente fornisce, alternativamente, uno dei seguenti documenti:

1) una dichiarazione IVA o un’istanza da cui emerge il credito richiesto a rimborso recante il visto di conformità;

2) una dichiarazione IVA o istanza da cui emerge il credito richiesto a rimborso recante la sottoscrizione alternativa al visto di conformità di cui all’articolo 10, comma 7, primo e secondo periodo, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102;

3) una dichiarazione IVA o istanza a cui è allegata una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà che attesti la sussistenza delle seguenti condizioni in relazione alle caratteristiche soggettive del contribuente:

  1. a) il patrimonio netto non è diminuito, rispetto alle risultanze contabili dell’ultimo periodo d’imposta, di oltre il 40 %. La consistenza degli immobili non si è ridotta, rispetto alle risultanze contabili dell’ultimo periodo d’imposta, di oltre il 40 % per cessioni non effettuate nella normale gestione dell’attività esercitata. L’attività stessa non è cessata né si è ridotta per effetto di cessioni di aziende o rami di aziende compresi nelle suddette risultanze contabili.
  2. b) Non risultano cedute – se la richiesta di rimborso è presentata da società di capitali non quotate nei mercati regolamentati – nell’anno precedente la richiesta, azioni o quote della società stessa per un ammontare superiore al 50 % del capitale sociale.
  3. c) sono stati eseguiti i versamenti dei contributi previdenziali e assicurativi.

 

CREDITO IVA: PUO’ ESSERE INCASSATO?

Cos’è l’IVA?

L’imposta sul valore aggiunto, conosciuta più comunemente come IVA, rappresenta un’imposta che colpisce il consumo dei beni e dei servizi. Essendo un’imposta indiretta, il suo versamento all’Erario viene effettuato da chi eroga servizi o vende dei beni. Quest’ultimo, inoltre, è tenuto ad adempiere ad una serie di obblighi formali, come ad esempio la  comunicazione IVA ogni trimestre e la dichiarazione IVA annuale.

Il Credito IVA

Nella dichiarazione IVA vengono raccolti tutti i dati e le informazioni, relativi ad un anno d’imposta, di un soggetto titolare di partiva IVA. In tale documento avviene la compensazione tra IVA a credito e IVA a debito.  Potrebbe capitare che la somma a credito sia superiore rispetto a quella a debito e che quindi il contribuente vanti un credito nei confronti dell’Erario. Cosa si può fare in questo caso? Il contribuente sicuramente può utilizzare questo credito per compensare l’IVA a debito degli esercizi futuri. Seppur questa rappresenti spesso la soluzione più conveniente, non è l’unica strada a disposizione del contribuente.

In alternativa, infatti,  il contribuente può chiedere il rimborso del credito IVA, ma solo se questo risulta superiore a 2.500 euro e solo in alcuni casi elencati dall’articolo 30 del D.P.R. n.633 del 1972.

Quando è possibile chiedere il rimborso?

Quando un soggetto titolare di partita IVA:

  1.    pone in essere esclusivamente o prevalentemente operazioni di vendita con aliquote IVA inferiori a quella applicata sulle operazioni di acquisto. Ad esempio: un soggetto effettua delle operazioni di acquisto sui cui si applica IVA al 22%, ma sulle operazioni di vendita vede applicare IVA con aliquota inferiore al 22%;
  2.   effettua delle operazioni che non sono imponibili ai fini IVA secondo quanto disposto dagli articoli 8, 8bis e 9 del d.p.r. n.633 del 1972. Un classico esempio è rappresentato dalle esportazioni. In questi casi, però, è necessario che le operazioni non imponibili siano superiori al 25% dell’ammontare complessivo di tutte le operazioni effettuate dal contribuente;
  3.  acquista o importa beni ammortizzabili o comunque beni per studi e ricerche;
  4. effettua prevalentemente prestazioni nei confronti di soggetti passivi non stabiliti nel territorio dello Stato.

I “Rimborsi accelerati”, cosa sono?

Il credito IVA può maturare anche in periodi più brevi, rispetto alla dichiarazione annuale.  Infatti, il credito IVA può venir fuori mensilmente o trimestralmente. Anche in questo si può chiederne il rimborso. Ed anche in questo caso il rimborso può essere richiesto solo nei casi riportati dall’articolo 38bis comma 2 del dpr n.633 del 1972, ovvero quando un soggetto:

  1.  pone in essere esclusivamente o prevalentemente operazioni di vendita con aliquote IVA inferiori a quelle applicate sulle operazioni di acquisto;
  2.  effettua operazioni non imponibili ai fini IVA (ai sensi degli artt. 8, 8bis e 9 del d.p.r. n.633 del 1972). Anche In questi casi è necessario che le operazioni non imponibili siano superiori al 25% dell’ammontare complessivo di tutte le operazioni effettuate dal contribuente;
  3.  acquista o importa beni ammortizzabili per un ammontare superiore ai 2/3 dell’ammontare complessivo degli acquisti e delle importazioni di beni e servizi imponibili ai fini IVA;
  4. effettua prestazioni nei confronti di soggetti passivi non stabiliti nel territorio dello Stato, per un importo superiore al 50 % dell’ammontare di tutte le operazioni effettuate. In questo caso le prestazioni da compiere devono essere le seguenti: prestazioni di lavorazione relative a beni mobili materiali, prestazioni di trasporto di beni e relative prestazioni di intermediazione, prestazioni di servizi accessorie ai trasporti di beni e relative prestazioni di intermediazione, ovvero prestazioni di servizi di cui all’articolo 19, comma 3, lettera a-bis).

Come si presenta ricorso all’ABF?

Nell’articolo pubblicato pochi giorni fa, abbiamo brevemente parlato dell’Arbitro Bancario Finanziario e del ruolo che ricopre nelle controversie tra clienti e Banche. È importante, però, capire come è possibile presentare ricorso all’ABF e, soprattutto, cosa può comportare una sentenza pronunciata dall’ABF.

Gli adempimenti che precedono il ricorso all’ABF

Non è possibile rivolgersi direttamente all’ABF, bensì bisogna tentare di risolvere direttamente la problematica con la Banca.  Per tale motivo deve essere presentato un reclamo scritto alla banca o all’intermediario finanziario coinvolto. Generalmente la Banca ha 60 giorni di tempo per rispondere. Se la Banca non risponde o risponde negativamente, allora il cliente può rivolgersi all’ABF, entro un anno dalla presentazione del reclamo presentato alla Banca. Decorso comunque tale termine, si può sempre ricorre all’ABF, ma occorrerà proporre un nuovo reclamo all’intermediario finanziario coinvolto.

Presentazione del ricorso online:

Il ricorso all’ABF può essere presentato online, previa registrazione al sito web www.arbitrobancariofinanziario.it.

Successivamente, si può inoltrare il ricorso, seguendo la procedura guidata, che consente anche di gestirne tutte le fasi.

Il ricorso può essere presentato autonomamente oppure avvalendosi di un rappresentante. In questa secondo caso, occorre conferire una procura.

Presentazione cartacea del ricorso:

Il ricorso si può presentare anche in modalità cartacea, ma solo se è diretto contro:

  • due o più intermediari contemporaneamente;
  • un intermediario estero che opera in Italia in regime di libera prestazione di servizi;
  • un confidi, ai sensi di quanto previsto dal TUB.

In questo caso il ricorso deve essere inviato via fax o per posta, con tutta la documentazione allegata, alla Segreteria tecnica competente o a qualsiasi filiale della Banca d’Italia. In alternativa può essere consegnato a mano presso una filiale della Banca d’Italia aperta al pubblico.

La decisione dell’ABF

L’ABF decide esclusivamente sulla base della documentazione prodotta dalle parti e non è previsto l’ascolto diretto del ricorrente.

L’intermediario contro il quale è diretto il ricorso, ha 45 giorni di tempo dalla ricezione per presentare le proprie controdeduzioni. A sua volta, il ricorrente può replicare alla documentazione presentata dall’intermediario nei successivi 25 giorni e quest’ultimo può trasmettere le controrepliche nei successivi 20 giorni.

Il collegio può concedere degli ulteriori termini, chiamati termini perentori, per la produzione dei documenti ad integrazione di quelli già presentati o della memoria di replica.

La comunicazione della decisione viene inviata al ricorrente nel termine di 90 giorni dalla data di completamento del fascicolo. Nei successivi 30 giorni vengono, poi, comunicate le motivazioni.

Se si tratta di un ricorso particolarmente complesso, il termine di 90 giorni può essere prorogato per un periodo non superiore ad altrettanti 90 giorni, previa comunicazione al ricorrente.

Che valore hanno le decisioni dell’ABF?

Le decisioni dell’Abf non hanno lo stesso valore delle sentenze pronunciate da un Tribunale. Pertanto, non sono vincolanti per la Banca. Tuttavia, se la Banca dovesse eseguire la prestazione stabilita dall’ABF in favore del cliente, la notizia è resa pubblica sul sito istituzionale dell’ABF per 5 anni. Nonostante i numerosi casi trattati fino ad ora, pochissime banche non hanno aderito alle decisioni dell’Arbitro Bancario Finanziario.

Cosa succede se la decisione dell’ABF non soddisfa le parti?

Se una delle parti non dovesse essere soddisfatta dalla pronuncia dell’ABF, può ricorrere agli altri strumenti di tutela previsti dall’ordinamento. Può, quindi, iniziare una causa civile oppure avvalersi della conciliazione o dell’arbitrato.

 

 

 

 

 

 

L’Arbitro Bancario Finanziario: chi è e che ruolo ha?

Chi è l’Arbitro Bancario Finanziario?

L’ABF è un organismo collegiale indipendente il cui scopo è la risoluzione delle controversie tra clienti e Banche. Nello specifico, chi ha un problema con una Banca, o altro istituto di credito, può presentare un ricorso all’ABF.

L’ABF si compone di 5 membri, che devono possedere requisiti di esperienza, professionalità, integrità e indipendenza. Il collegio è quindi così composto:

  • Il presidente e due membri, designati dalla Banca d’Italia;
  • Un membro, scelto dalle associazioni degli intermediari;
  • Un membro, nominato dalle associazioni che rappresentano i clienti (consumatori ed imprese).

Quanti collegi ci sono in Italia?

In Italia abbiamo 7 collegi che sono competenti per territorio e quindi decidono le controversie in base al domicilio del cliente che ha presentato ricorso:

  • Roma, per il Lazio, l’Abruzzo, le Marche, l’Umbria e gli Stati esteri;
  • Milano, per la Lombardia, il Friuli Venezia Giulia, il Trentino Alto Adige e il Veneto;
  • Torino, per il Piemonte, la Liguria e la Valle d’Aosta;
  • Bologna, per l’Emilia Romagna e la Toscana;
  • Napoli, per la Campania e il Molise;
  • Bari, per la Puglia, la Basilicata e la Calabria;
  • Palermo, per le due isole maggiori, cioè per la Sicilia e la Sardegna.

Soggetti avverso i quali può essere presentato ricorso:

  • Banche;
  • Intermediari finanziari, iscritti all’Albo di cui all’Art. 106 TUB;
  • Confidi, iscritti ad uno degli appositi Elenchi previsti sempre dal Testo Unico Bancario;
  • Istituti di pagamento;
  • Istituti di moneta elettronica.

Per quali problematiche si può presentare ricorso?

L’Arbitro bancario finanziario può decidere sulle controversie insorte con un intermediario per servizi bancari e finanziari, che hanno ad oggetto:

  • i servizi di pagamento.
  • conti correnti, mutui, prestiti personali:
  • se viene chiesta una somma di denaro pari o inferiore a 200.000 euro.
  • l’accertamento di diritti, obblighi e facoltà senza limiti di importo.

Il ricorso all’ABF è comunque possibile se una procedura di conciliazione o mediazione non ha avuto esito positivo oppure se è stata avviata dall’intermediario e il cliente non vi ha aderito.

Quando non è possibile rivolgersi all’ABF?

  • Se viene chiesta una somma di denaro superiore a 200.000 euro. In questo caso l’ABF non può esaminare il ricorso in quanto supera il limite di valore della competenza del sistema stragiudiziale;
  • la controversia è già sottoposta alla decisione dell’autorità giudiziaria o all’esame di arbitri o conciliatori
  • la controversia riguarda beni o servizi diversi da quelli bancari e finanziari ovvero servizi o attività con finalità di investimento (vedi l’ipotesi di negoziazione di titoli oppure di gestione di patrimoni). In questo caso, competente a decidere è l’Arbitro per le controversie finanziarie (Acf), attivo presso la Consob (Commissione nazionale per le società e la borsa).

Quali sono i vantaggi del ricorrere all’ABF?

  • È possibile presentare ricorso anche senza l’aiuto di un legale o di un professionista. La procedura può essere attivata direttamente dal soggetto interessato anche per via telematica.
  • Costo della procedura che è di 20 euro a titolo di contributo per le sole spese di procedura. Inoltre, la somma in questione viene rimborsata dal soggetto finanziario, in caso di ricorso accolto.

 

 

Modello 730: tutto quello che c’è da sapere

Caratteristiche principali del Modello 730

Molto spesso, quando si parla di dichiarazione dei redditi si sente spesso parlare anche di modello 730 o di modello semplificato.

Che cos’è il modello 730? Si tratta di un documento con il quale un contribuente può dichiarare i redditi che ha prodotto in un anno. Ma non solo. Il 730 serve anche per calcolare correttamente le imposte che dovrebbero essere versate, serve a scaricare spese detraibili, come ad esempio le spese sanitarie, o ancora per effettuare operazioni di conguaglio con eventuali crediti maturati negli anni precedenti.

Quando bisogna presentarlo? Salvo casi eccezionali indicati dall’Agenzia delle Entrate, il modello deve essere presentato ogni anno, per indicare i redditi prodotti nell’anno precedente – es. un reddito prodotto nell’anno 2019 deve essere indicato nel modello 730 da presentare entro il 30 settembre 2020.

Quando presentare il modello

Il Modello 730 va presentato quando una persona produce quello che il Fisco definisce “reddito da lavoro subordinato o qualsiasi altro reddito assimilato”. Secondo l’articolo 49 comma 1 del TUIR sono quei redditi “[…]che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri, compreso il lavoro a domicilio quando è considerato lavoro dipendente secondo le norme della legislazione sul lavoro.”.

In questa categoria sono inclusi anche i redditi derivanti dalle pensioni o ancora le indennità sostitutive dei redditi da lavoro dipendente come, ad esempio, la cassa integrazione guadagni, i redditi dei collaboratori coordinati e continuativi e dei lavoratori a progetto.

Non finisce qui.  Il modello deve essere presentarlo anche quando il contribuente produce i seguenti redditi:

  • derivanti da terreni o fabbricati;
  •  da capitale;
  • diversi, come ad esempio i redditi derivanti da terreni e fabbricati situati in uno stato estero;
  • Redditi da lavoro autonomo per i quali non è prevista l’apertura della partita Iva;
  • Redditi assoggettati a tassazione separata, come ad esempio il Tfr.

 

È sempre obbligatorio presentare il Modello 730?

Presentare una dichiarazione rappresenta un obbligo formale e quindi va presentato anche quando non si producono redditi. Ma ci sono alcuni casi in cui una persona, seppur producendo uno dei redditi indicati precedentemente, può essere esonerato dalla presentazione del modello 730 e cioè quando si producono:

  • Redditi da abitazione principale, pertinenze e altri fabbricati non locati. Se il fabbricato non locato è situato nello stesso comune dell’abitazione principale l’esonero non è applicabile;
  • Redditi da lavoro dipendente o pensione da un solo sostituto d’imposta. Un lavoratore subordinato che ha diversi rapporti di lavoro con più datori di lavoro oppure che percepisce, contestualmente, redditi da lavoro dipendente e da pensione sarà comunque tenuto a presentare il modello 730;
  • Redditi da lavoro dipendente o pensione da parte di soggetti che siano anche in possesso di abitazione principale con pertinenze e altri fabbricati non locati;
  • Redditi derivanti da rapporti di lavoro parasubordinato, come contratti di collaborazione coordinata e continuativa o contratti di lavoro a progetto. In questo caso, sono escluse dall’esonero le cosiddette collaborazioni aventi carattere amministrativo-gestionale che vengono effettuate a favore di società sportive non dilettantistiche;
  • Altre tipologie di redditi come borse di studiorendite erogate dall’INAIL per invalidità permanente o morte, pensioni di guerra, pensioni privilegiate ordinarie corrisposte ai militari di leva, indennità di accompagnamento e assegni a favore di ciechi civili, sordi, invalidi civili, pensioni civili;
  • Redditi soggetti ad imposta sostitutiva come gli interessi sui Bot e sugli altri titoli di Stato;
  • Redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, come le indennità erogate ai lavoratori socialmente utili o gli interessi che derivano dai conti correnti bancari o postali.

Successione: il Fisco tassa anche l’eredità

Caratteristiche principali dell’Imposta di successione

In caso di morte di una persona, i beni e diritti appartenenti al defunto si trasferiscono agli eredi secondo le regole di successione legittima o secondo le disposizioni date dal testamento. Il patrimonio oggetto di eredità è detto “asse ereditario” e comprende beni mobili, immobili di qualsiasi tipo, azioni e partecipazioni in società, denaro e gioielli.

L’imposta di successione è l’imposta che l’erede è tenuto a versare qualora decida di accettare l’eredità,  entro 12 mesi dalla data di decesso della persona venuta a mancare.  L’imposta di successione, quindi, colpisce il trasferimento dei beni quando passano dal defunto agli eredi.

Come si calcola l’imposta di successione?

Anche l’imposta di successione, come qualsiasi altra imposta, prevede delle franchigie, aliquote e un base imponibile.

La base imponibile è quell’importo sul quale si calcola l’imposta e che nel nostro caso è rappresentata dalla differenza tra la somma del valore dei beni ricevuti in eredità e i debiti ereditati, cioè il valore complessivo netto.

Per quanto riguarda, invece, le aliquote e le franchigie, queste si differenziano a seconda del grado di parentela tra la persona defunta e l’erede. Le aliquote e le franchigie sono state fissate e regolate dall’articolo 2 comma 48 del decreto legge 262 del 2006.

Nello specifico Si applicano le seguenti aliquote:

  •  4%,  per i trasferimenti effettuati in favore del coniuge o di parenti in linea retta (es. figli), da applicare sul valore complessivo netto, eccedente per ciascun beneficiario, superiore 1 milione di euro;
  •  6%,  per i trasferimenti effettuati in favore di un parente in linea retta (es. fratello o sorella), da applicare sul valore complessivo netto, eccedente per ciascun beneficiario, superiore a 100.000 euro;
  •  6%,  per i trasferimenti effettuati in favore di altri parenti fino al quarto grado, degli affini in linea collaterale fino al terzo grado, da applicare sul valore complessivo netto trasferito, senza applicazione di alcuna franchigia.
  • 8%, per i trasferimenti effettuati in favore di tutti gli altri soggetti, da applicare sul valore complessivo netto trasferito, senza applicazione di alcuna franchigia.

Casi Particolari

Un caso particolare può esserci quando  il soggetto in questione riceve in eredità un immobile. In questa situazione oltre a versare l’imposta di successione, tenendo sempre conto delle franchigie e delle aliquote citate precedentemente, bisogna versare anche le seguenti imposte:

  • Imposta ipotecaria, che è pari al 2% del valore dell’immobile.
  • Imposta catastale, che è pari al 1% del valore dell’immobile.

 

Quali sono i beni esclusi dall’imposta di successione?

Sono esclusi dall’imposta di successione:

  • I titoli di debito pubblico e gli altri Titoli di Stato o equiparati;
  • Le indennità di fine rapporto di lavoro (TFR) e le prestazioni di previdenza complementare;
  • I veicoli iscritti nel pubblico registro automobilistico.
  • Polizze vita

 

Quali sono gli adempimenti formali?

Dopo avere accettato l’eredità, il contribuente deve presentare la dichiarazione di successione entro 12 mesi dalla data del decesso. E’ esonerato dal presentare la dichiarazione chi ha rinunciato all’eredità prima della scadenza dei 12 mesi o chi ha nominato un curatore per l’eredità. Sono, inoltre, esonerati il coniuge, i figli e i parenti se l’eredità non supera 100.000 euro e non comprende beni immobili.

Il versamento dell’imposta non avverrà immediatamente. L’Agenzia delle Entrate effettuerà dei controlli sulla dichiarazione ed  entro 3 anni dalla presentazione della dichiarazione o entro 5 anni (in caso di omessa dichiarazione) emetterà un avviso di liquidazione. Con tale avviso l’Agenzia  chiede il versamento dell’imposta di successione dovuta. Questo pagamento deve essere effettuato entro 60 giorni dalla data in cui è stato notificato l’avviso di liquidazione ed oltre tale termine si applicherebbero delle sanzioni ed interessi di mora.

L’imposta di successione si può pagare anche a rate. Infatti, dopo aver chiesto il rateizzo delle somme da pagare, il contribuente deve pagare almeno al 20% dell’importo dovuto entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso di liquidazione, mentre la parte restante deve essere versata in 8 rate trimestrali che possono arrivare a 12 se l’importo da pagare supera 20.000 euro – lo scadenzario delle rate verrà definito dall’ Agenzia delle Entrate. Questo meccanismo del rateizzo non si applica per importi inferiori a 1.000 euro.

 

 

Cartella esattoriale nulla: gli strumenti a favore del debitore

CHE COS’E’ UNA CARTELLA ESATTORIALE?

La cartella esattoriale è un documento con il quale la pubblica amministrazione avvia una procedura, nei riguardi di un contribuente, per recuperare delle somme di denaro. Questa cartella non nasce dal nulla, bensì da un credito vantato dallo Stato nei confronti del contribuente, a causa di somme non versate da quest’ultimo.

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COSA FARE?

La giusta domanda da porsi è: siamo sempre costretti a versare tali somme di denaro?

In realtà esistono due casi nei quali il contribuente liberarsi della cartella esattoriale:

1) Sperare nella prescrizione, cioè che la cartella non venga notificata o non vengano intraprese azioni esecutive, ipoteche o fermi da parte della Pubblica Amministrazione entro un certo arco temporale.

2)In caso di notifica della cartella, la seconda possibilità è quella, di presentare ricorso contro la cartella. Il ricorso deve essere motivato, cioè è necessario presentare motivazioni solide alla base per poter contestare la cartella. Inoltre, il ricorso va presentato entro 60 giorni dalla notifica dell’atto oppure, se il postino non ha trovato nessuno casa, decorsi 10 giorni dall’invio della raccomandata informativa.  Con la raccomandata informativa viene comunicato al contribuente che c’è stato un inutile tentativo di consegna della cartella e che la stessa è stata depositata presso l’ufficio postale o la casa comunale.

I CASI DI NULLITA’

Quando è possibile chiedere la nullità della cartella esattoriale? Vediamo le casistiche indicate dal legislatore:

a) cartella nulla se mancano precedenti avvisi di accertamento:

la cartella esattoriale deve essere anticipata da un documento con cui la pubblica amministrazione contesta la dichiarazione presentata dal contribuente; quindi, la Pubblica Amministrazione non  può iniziare a recuperare coattivamente un credito tributario se prima non contesta la relativa dichiarazione.

b) Cartella nulla senza il calcolo degli interessi:

come è noto, dal mancato versamento di un tributo maturano degli interessi passivi sullo stesso. Con la cartella, quindi, viene richiesto il pagamento non solo dell’imposta non versata, ma anche di tali interessi. Poiché la cartella può essere notificata dopo diversi anni, è opportuno che la somma degli interessi non sia quantificata in un unico importo. Il computo degli interessi deve essere indicato in modo distinto per ciascuna annualità, in modo che il contribuente possa controllare se tale calcolo sia legittimo. È nulla la cartella esattoriale dove viene riportato un unico importo a titolo di interessi.

c) cartella esattoriale nulla se manca la notifica:

una cartella può essere annullata se non viene notificata. Molte cartelle esattoriali non arrivano mai a destinazione, nonostante rimangano negli archivi dell’Agenzia delle Entrate. Il contribuente viene a conoscenza di tali cartelle non notificate, a seguito di una richiesta di estratto di ruolo o al ricevimento di un successivo sollecito di pagamento. Addirittura, potrebbe accadere che il contribuente subisca un fermo auto, un’ipoteca o un pignoramento senza che, prima di questo, abbia mai ricevuto alcuna notifica della cartella. In tutti questi casi, è possibile fare ricorso per ottenere la nullità della cartella.

d) Cartella notificata al contribuente defunto:

quando deve essere notifica una cartella per debiti ad una persona defunta, in primis la cartella è innanzitutto nulla se la busta è indirizzata al soggetto deceduto, in quanto non più esistente.  Nel primo anno dalla morte del contribuente, la cartella va infatti notificata all’ultimo indirizzo di residenza di quest’ultimo e intestata a tutti gli eredi impersonalmente (ad esempio «Eredi del sig…»). Decorso un anno dal decesso, la cartella va notificata a ciascun erede che abbia già accettato l’eredità, presso la sua effettiva residenza. Quindi, sarebbe nulla la cartella notificata all’indirizzo del contribuente defunto.

e) Cartella esattoriale nulla se incompleta:

come tutti gli atti amministrativi, anche la cartella esattoriale deve avere un contenuto minimo, tale da consentire al contribuente di comprendere l’origine della pretesa e potersi così difendere. Pertanto, una cartella incompleta è certamente nulla. Ma quando una cartella è incompleta e quali elementi essenziali deve contenere?

  • La motivazione;
  • Il tipo di imposta o sanzione e l’anno in cui il pagamento non è avvenuto;
  • Il nome del responsabile del procedimento a cui il contribuente può rivolgersi per maggiori chiarimenti.

f) Cartella esattoriale nulla se la notifica non è corretta:

un ulteriore vizio potrebbe riguardare proprio lo stesso procedimento di notifica.  È il caso, ad esempio, in cui la cartella viene notificata ad un vecchio indirizzo, presso il quale non risiede più il contribuente. A riguardo, è bene sapere che le notifiche al vecchio indirizzo sono valide solo fino a 60 giorni dal trasferimento, a meno che il contribuente non abbia comunicato subito detto trasferimento all’Agenzia delle Entrate (in tal caso, già dal giorno dopo le notifiche devono avvenire presso la nuova residenza). In assenza di tale comunicazione, dopo il 60° giorno dal trasferimento, anche le notifiche degli atti fiscali fatte in assenza della comunicazione all’Agenzia delle Entrate, devono avvenire al nuovo indirizzo di residenza.

Un altro tipico caso di notifica non corretta è quella fatta a un soggetto irreperibile, perché ha cambiato indirizzo di residenza senza comunicarlo al Comune. In tal caso, la legge impone all’ufficiale giudiziario di depositare la cartella in Comune, ma non prima di aver fatto delle opportune verifiche per accertare ove effettivamente il destinatario vive o lavora. Di tali ricerche deve essere dato atto nella relazione di notifica; in caso contrario, la cartella è nulla.

Un ultimo caso di nullità della cartella è rappresentato dalla mancata indicazione della data di notifica della cartella, nella relazione di notifica dell’ufficiale giudiziario. È possibile, inoltre, chiedere la nullità della cartella qualora la data di notifica della stessa non sia apposta in calce all’atto, ma, ad esempio, nel frontespizio.

 

 

Novità 2021: deroga delle attività di controllo dell’Agenzia delle entrate

Accertamenti fiscali: la regola generale

Come detto in precedenza, gli avvisi di accertamento possono essere notificati entro 4 anni dal momento in cui la dichiarazione doveva essere presentata o entro 5 anni nel caso di omessa dichiarazione. Secondo tale regola generale, il fisco nel 2021 dovrebbe occuparsi dei redditi dichiarati (o non dichiarati) dai contribuenti nel 2015.

LEGGI ANCHE: — Notifica atti tributari, un problema del fisco o del contribuente? 

Deroga delle attività di controllo del 2020 dell’Agenzia delle Entrate

 È stata prevista una deroga ai controlli attinenti i redditi del 2015.

Nello specifico per quanto riguarda i tributi gestiti dall’Agenzia delle Entrate sono previste 2 tipologie di deroghe:

  • Deroga fino al 30 aprile 2021, se c’è stato un invito a comparire da parte dell’agenzia delle entrate, mediante contradditorio, entro la fine del 2020. La deroga deriva dalla sospensione delle scadenze fiscali concessa nel periodo che va dall’8 marzo al 31 maggio 2020. Ciò è possibile in virtù dell’articolo 5 del decreto legislativo n.218 del 1997, secondo il quale il Fisco può beneficiare di una proroga di ben 120 giorni del termine di decadenza ordinario, in tutti i casi in cui tra la data di comparizione indicata dall’Ufficio nell’invito e la scadenza di fine anno intercorrono meno di 90 giorni.
  • Deroga fino al 31 dicembre 2021, per tutti gli atti non preceduti da un contradditorio preventivo.

Tributi Locali

Per quanto riguarda i tributi di competenza degli enti locali, come ad esempio IMU o bollo auto, la proroga è di 85 giorni. Quindi tutti gli accertamenti in scadenza a fine 2020 potranno essere notificati fino al 26 marzo 2021.